Fedele Romani
Fedele Romani (Colledara, 21 settembre 1855 – Firenze, 16 maggio 1910) è stato uno scrittore, poeta e linguista italiano. Insegnò al Liceo Dante di Firenze.
Biografia: il padre, Giovanni, fu avvocato e consigliere provinciale di Teramo. Fedele studiò prima al seminario di Atri e successivamente nei licei di Teramo e L'Aquila. Frequentò in questi anni anche la scuola di disegno del pittore Gennaro Della Monica, affinando un talento naturale poi espresso nella produzione di caricature. Si laureò in lettere alla Normale di Pisa, avendo avuto come insegnanti Alessandro D'Ancona, Michele Ferrucci, Ferdinando Ranalli e, tra i compagni di studio, il dantista Guido Mazzoni. Fu professore di ginnasio a Potenza e a Cosenza, e quindi di liceo a Teramo, Sassari, Catanzaro, Palermo e Firenze. Nel capoluogo toscano, dove visse dal 1893 fino alla morte, fu anche docente nell'Istituto di Studi superiori e di Perfezionamento.
I suoi interessi culturali furono estremamente differenziati. Notevole l'apporto agli studi danteschi con la pubblicazione di numerosi saggi e con la serie delle conferenze tenute per la "Lectura Dantis" a Orsanmichele. Si occupò inoltre di dialettologia e pubblicò approfondite indagini relative alle parlate in Abruzzo, Sardegna, Calabria e Toscana. La sua fama però è legata soprattutto all'opera narrativa.
Ebbe vasta risonanza la pubblicazione di Colledara (Firenze, 1907), libro di memorie che descrive personaggi e vita quotidiana di una località nell'area del Gran Sasso d'Italia. Per cura di Guido Mazzoni, nel 1915, fu pubblicato postumo "Da Colledara a Firenze" che rappresenta in qualche modo la sua autobiografia intellettuale. Compose inoltre poesie nel dialetto della montagna teramana e collaborò anche a numerosi periodici tra i quali La Gazzetta di Teramo, La Provincia, il Corriere Abruzzese, La Lettura e Il Marzocco edito a Firenze da Adolfo Orvieto. Fu amico di Giovanni Pascoli, che gli dedicò i suoi Poemi italici. È sepolto nel Cimitero delle Porte Sante di Firenze. Scritti Abruzzesismi, Piacenza, Porta, 1884; II ed. Teramo, Fabbri, 1890; III ed. Firenze, Bemporad, 1907; Sardismi, Sassari, Manca, 1886; II. ed. 1887; Calabresismi, Teramo, Fabbri, 1890; Il secondo cerchio dell'Inferno di Dante, Firenze, R. Paggi, 1894; Ombre e corpi. Il secondo cerchio dell'"Inferno" di Dante. La figura, i movimenti e gli atteggiamenti umani nella Divina Commedia e nei Promessi sposi, Città di Castello, Lapi, 1901; Poesia pagana e arte cristiana, Firenze, L.S. Olschki, 1902; L'addio di Ettore e di Andromaca, Firenze, Le Monnier, 1903; Laura nei sogni del Petrarca, Prato, Passerini, 1905; Colledara, Firenze, Bemporad, 1907; Colledara, aggiuntovi Da Colledara a Firenze, Firenze, Bemporad, 1915; Colledara e Da Colledara a Firenze, Pescara, Trebi, 1960; Colledara, a cura di Carlo De Matteis, L'Aquila, Textus, 1996; Colledara e Da Colledara a Firenze, in Fedele Romani, a cura di Fausto Eugeni e Marcello Sgattoni, Sant'Atto di Teramo, Edigrafital, 1999, vol. II; Toscanismi, Firenze, Bemporad, 1907.
Nel settembre del 1906 in un albergo della montagna pistoiese Fedele Romani metteva la parola "fine" al suo capolavoro "Colledara", straordinario libro di memorie che descrive luoghi e persone del suo paese d’origine. Tre anni dopo, il 4 settembre del 1909, alle ore 16 e 40 minuti, nel Kursaal Hotel di Rapallo, chiudeva "Da Colledara a Firenze", nel quale racconta la propria vita di studente e poi di professore attraverso un lungo viaggio che si snoda per numerose città italiane, fino a giungere a Firenze dove, nel liceo Dante, andò a occupare la cattedra di Italiano che era stata di Raffaello Fornaciari e di Isidoro Del Lungo.
In quei giorni Fedele sapeva già di essere gravemente malato e che ormai gli restava pochissimo tempo da vivere. Le ultime pagine del suo secondo romanzo infatti sono cariche di mistero e di angoscia e sembrano rivelare qualcosa del suo Credo personale: pagine che possono far pensare a una qualche sua adesione alla dottrina della Reincarnazione. Che Romani avesse da tempo abbandonato la fede cattolica è accertato ed è lui stesso a dichiararlo apertamente; però egli lasciò mai trasparire niente, stando almeno ai suoi scritti conosciuti, sulla sua privata visione del mondo.
Ad alimentare tale misteriosa aura si può aggiungere l’enigmatica dedica che a Fedele e ad altri due amici (Giovanni Setti e Alfredo Straccali) volle riservare Giovanni Pascoli, nel licenziare “Poemi Italici” (Bologna, Zanichelli, 1911) sul quale leggiamo "Santi cuori che non battono più. Nobili menti che pensano ancora. Dolci memorie che resteranno, sempre". Fedele Romani morì a Firenze il 16 maggio del 1910.
Consulta tutte le altre opere di Fedele Romani al seguente link: http://www.delfico.it/Testi%20Fedele%20Romani%20Colledara00.htm
"Colledara è un villaggetto di poche case, posto sopra una delle più verdi e più ridenti colline che allietano la Valle di Monte Corno, o Gran Sasso d'Italia, dal lato che guarda l'Adriatico. Da quella parte, il Gran Sasso si mostra più magnificamente elevato e superbo. La sua altezza non è grande (2914 m), se lo si paragona, per esempio, a quella della più ardue cime delle Alpi; ma io non ho mai visto un monte che più faccia pompa della sua statura, e che avegli nell'animo più intensamente il senso della maestà e del sublime. L'altezza di altri monti famosi che io ho veduti, è ordinariamente preparata da molte colline e da potenti contrafforti, per modo che spesso le più ardite cime sembrano a primo sguardo poco elevate e al tutto indegne della loro fama. Ai piedi del Gran Sasso… dalla parte di Teramo e di Colledara, non si ha un'altezza maggiore di otto o novecento metri. Perciò si possono vedere, al di sopra della breve zona boscosa, circa duemila metri di nudo sasso, di color ferrigno, elevarsi impetuosi verso il cielo. La forma del monte è quasi quella di una mitra episcopale; ma a me non piace di paragonarlo a un oggetto senza vita: egli è vivo, e vede e sente; si leva gigante a capo della Valle, come il signore di essa, e, con l'ardua punta, scopre, dicono, fin la remota riva della Dalmazia. E par che si alzi sui piedi, e aderga la testa e le spalle per vegliare da lungi sull'antico e glorioso mare d'Italia, o meglio, per scoprire altri suoi fratelli lontani, soli degni dei suoi sguardi e del suo amore. Sembra a volte di vedergli gonfiare l'immenso petto roccioso dalla soddisfazione intima piena per il proprio sublime aspetto, per l'aria purissima che gli è dato di godere, e per le mirabili cose che può perennemente scoprire e ammirare. Molti vedono nel suo dentato superbo profilo l'immagine di Napoleone, di quest'anima sublime, che, lasciate le misere forme umane, dov'era imprigionata, erra di vetta in vetta per trovare, nell'eternità delle rocce e dei dirupi, una forma che sia degna d'incarnare tutta la sua innata grandezza."